Nell’ambito di Peses, Programma di Educazione per le Scienze Economiche e Sociali dell’Università Cattolica, le classi Terze del nostro Liceo hanno affrontato il tema della lotta alla criminalità insieme al Generale dei Carabinieri Teo Luzi, un uomo che ha dedicato la sua vita alla sicurezza del Paese e alla lotta contro la criminalità organizzata. Un momento di grande ispirazione che Maria Sofia ha saputo raccogliere e rielaborare in questa intervista.
Far conoscere le istituzioni e rafforzare la fiducia dei giovani nei valori costituzionali dell’equità, della giustizia e della coesione sociale è uno scopo alla base della missione educativa di ogni scuola. Il 19 febbraio scorso noi studentesse e studenti dell’High School abbiamo potuto confrontarci su questi temi con un grande protagonista della lotta alla criminalità organizzata degli ultimi anni, scoprendo molti aspetti sulla sua attività al servizio dello Stato e sul suo percorso personale, informazioni che magari ispireranno qualcuno di noi per le proprie scelte.
Nato a Cattolica il 14 novembre 1959 e dopo una prima fase in cui pensava a un futuro da medico, il Generale Luzi ha iniziato la carriera militare entrando nell’Accademia di Modena nel 1978. Da quel momento ha ricoperto numerosi incarichi di prestigio all’interno dell’Arma dei Carabinieri, fino a diventare Comandante Generale dal 16 gennaio 2021 al 15 novembre 2024. Nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Menorah d’Oro, il Premio Nazionale Paolo Borsellino e il Premio Guido Carli.
Al termine di un incontro davvero molto vivo e partecipato, ecco le domande che gli abbiamo posto.
Generale, partiamo da un fenomeno di forte attualità che chiama in causa proprio giovani e giovanissimi, quello delle baby gang. Lei come lo interpreta e come è possibile pensare a un vero reinserimento sociale per chi ne fa parte?
«Le baby gang sono sempre esistite. Quello che oggi si rileva come novità è che spesso trovano origine sui social e che i giovani non hanno la percezione del disvalore di taluni comportamenti violenti. Il fenomeno può essere contenuto solo con la cultura, facendo capire ai giovani che i gruppi sono negativi se dominati dal mito della violenza. Peraltro con conseguenze penali molto gravi in caso di identificazione dei responsabili. In questo la famiglia e la scuola possono fare tanto per far crescere i ragazzi in un ambiente sano. Anche lo Stato deve fare la propria parte creando o favorendo condizioni di aggregazione positive come in ambito sportivo, artistico e ambientale».
Veniamo alla lotta contro la criminalità organizzata, il settore in cui lei si è particolarmente distinto e che sappiamo essere ancora una delle priorità del nostro Stato. Qual è l’aspetto che l’ha colpita di più in questi anni?
«Che la gran parte dei latitanti riescono a eludere le ricerche delle forze di polizia – alcuni anche per decine e decine di anni – pur permanendo nel territorio d’origine. Così è stato per Riina, Provenzano, Messina Denaro e tanti altri. Questo è reso possibile soprattutto da quella che noi chiamiamo omertà sociale (anche, purtroppo, da parte di persone di alta cultura). Omertà in parte conseguente alla paura che deriva dalla forza intimidatrice del crimine organizzato».
Che cosa pensa del ruolo dei pentiti?
«Il ruolo dei pentiti è molto importante per la lotta al crimine, consentendo di identificare sodali e di sequestrare beni illeciti. Oggi in Italia c’è una legislazione efficiente e, al tempo stesso, garantista. Infatti, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, come esattamente li chiama la legge, devono essere sempre comprovate dalle indagini».
Com’è cambiata la mentalità della popolazione italiana nei confronti della criminalità organizzata?
«Rispetto al passato gli italiani sono più consapevoli che la mafia mina le radici della società e dell’economia e che danneggia il futuro dei nostri giovani. Ma non bisogna abbassare la guardia. È necessario che l’attenzione resti sempre alta. Così è opportuno che se ne parli costantemente sui media, nelle scuole e in ogni centro sociale. La cultura antimafia è il principale antidoto contro il crimine organizzato.»
Infine, cosa l’ha davvero spinta a intraprendere la carriera militare? La consiglierebbe ai giovani di oggi?
«Poco prima di diplomarmi immaginavo il mio futuro da medico e pensavo di iscrivermi a Medicina presso l’Università degli Studi di Bologna. Per un tocco magico della sorte, una domenica mattina a primavera, nella piazza del mio paese natio, in Romagna, il Comandante di Stazione occasionalmente mi parlò dell’opportunità di fare il carabiniere. In me si accese una luce e nelle settimane a seguire approfondii questa opportunità. Attratto dai valori etici di una scelta del genere e dall’idea di lavorare a favore della società, a tutela della sicurezza e della legalità, è maturata in me l’idea della carriera militare. Dopo 46 anni posso dire di aver fatto la scelta giusta e che essere Comandante (in qualsiasi grado, da tenente a generale) è la missione più bella e non ha eguali. Tanti sacrifici, ma soddisfazioni uniche! Per questo motivo con molta sincerità consiglio ai giovani di valutare questa opportunità e, se si è convinti, di provarci».
Maria Sofia Vittimberga, 16 anni, Liceo Classico “Marymount” (laboratorio di giornalismo)